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Impronta animale: il rapporto tra il settore zootecnico e i gas serra

July 22, 2022


Impronta animale: il rapporto tra il settore zootecnico e gas serra

Nel precedente articolo abbiamo analizzato l’impatto devastante che l’aumento dei gas produce sull’equilibrio ambientale. Oggi ci soffermeremo sul rapporto fra gas serra e zootecnica.

La zootecnica

La zootecnia o zootecnica è la scienza alla base della produzione e dello sfruttamento razionale degli animali domestici utili all’uomo al fine di produrre lavoro e prodotti alimentari e commerciali di origine animale. 

Essa comporta a sua volta un ampio uso di risorse alimentari e idriche ed è direttamente responsabile di danni ambientali quali l’inquinamento delle acque, l’uso delle terre, la deforestazione e degradazione del suolo e l’emissione di gas serra.

Grazie alle sempre più numerose ricerche scientifiche correlate al settore zootecnico, disponiamo di dati che ci permettono di comprendere nel dettaglio la diretta influenza di un’alimentazione di origine animale sull’equilibrio ambientale.

Breve storia della carne sulle nostre tavole

Durante la seconda metà del Novecento il consumo globale di carne è aumentato di cinque volte: dai 45 milioni di tonnellate del 1950 ai 233 milioni di tonnellate del 2000. Il consumo continua a crescere e la FAO ha stimato che si arriverà a 465 milioni di tonnellate entro il 2050. Così come cresce la produzione di latte (580 milioni di tonnellate nel 1999-2001 – 1043 milioni di tonnellate entro il 2050). 

Naturalmente a questo corrisponde un incremento costante del numero di animali allevati per la produzione alimentare.

Breve storia della carne sulle nostre tavole

Dov’è il problema? 

Le risorse alimentari consumate dagli animali sono maggiori di quelle da essi prodotte sotto forma di carne, latte e uova.

Le quantità alimentari assunte da un animale non producono infatti un’analoga quantità di massa corporea, perché una parte del cibo ingerito viene usata per le funzioni vitali dall’organismo, un’altra parte viene bruciata sotto forma di energia e un’altra ancora viene espulsa. 

Indice di conversione alimentare 

È il rapporto tra la quantità di alimenti ingerita e la conseguente crescita dell’organismo e serve a misurare la quantità di mangime necessaria (espressa in chilogrammi) per l’accrescimento di 1 kg di peso vivo dell’animale. 

Per un manzo, ad esempio, l’indice di conversione va da 7 a 10: questo significa che per crescere di 1 kg di peso corporeo gli occorrono da 7 a 10 kg di mangime. Tra la nascita e la macellazione (50 kg —> 600 kg) un manzo consuma quindi 4000-5000 kg di mangime. 

Attraverso la macellazione viene poi scartato tra il 54 e il 74% dell’animale.

Dopo il taglio, infine, la quantità finale di carne utilizzabile può dunque essere anche minore della metà del peso dell’animale vivo.

E quindi?

Il rapporto tra la quantità di mangime consumato dall’animale e il prodotto finale distribuito è molto svantaggioso: per ottenere 1 kg di carne di manzo occorrono almeno 2 kg di animale vivo, a cui corrispondono 14-20 kg di mangime consumato. La produzione di alimenti di origine animale richiede dunque a sua volta un largo uso di risorse alimentari. 

Si stima che un ettaro coltivato a patate e un ettaro coltivato a riso siano in grado di provvedere al nutrimento annuo rispettivamente di 22 e 19 persone, mentre un ettaro destinato alla produzione di manzo nutre in un anno una sola persona. 

Se si conta che per 1 kg di proteine animali prodotte occorrono circa 6 kg di proteine vegetali, si osserva uno svantaggioso rapporto di conversione proteica, per cui la produzione di proteine della carne necessita da 6 a 17 volte più terra rispetto all’equivalente quantitativo di proteine vegetali: un ettaro coltivato a cereali fornisce cinque volte più proteine di un ettaro destinato alla produzione di carne, i legumi ne forniscono 10 volte di più, i vegetali a foglia 15 volte di più. 

Qual è il punto?

L’agricoltura è una delle principali cause di produzione di gas serra che, come abbiamo visto nel dettaglio nel precedente articolo, sono fra i fattori scatenanti della crisi climatica. 

Il Worldwatch Institute ha rilevato che il totale delle emissioni di gas serra attribuibili al settore zootecnico – che abbiamo appena visto essere direttamente correlato al settore agricolo – rappresenta il 51% delle emissioni totali. Più che della produzione di anidride carbonica (CO2), questo settore è responsabile di alte emissioni di gas più dannosi, quali il metano (35-40%), l’ossido di diazoto (65%) e l’ammoniaca (64%).

Come abbiamo visto nel precedente articolo, ogni gas ha un diverso potere riscaldante: ad esempio il metano è 20 volte più potente della CO2, mentre l’ossido di diazoto ha un potenziale di riscaldamento climatico pari a 310: ciò significa che su cento anni l’ossido di diazoto è 310 volte più impattante della CO2 per unità di massa.

In che modo il settore zootecnico produce gas serra_

In che modo il settore zootecnico produce gas serra?

Delle emissioni totali prodotte dal settore zootecnico, il 55% è rappresentato dal metano originato direttamente dagli animali attraverso il processo digestivo.

Un’altra grave causa è poi la distruzione delle foreste (35% del totale delle emissioni prodotte dall’allevamento): attraverso la fotosintesi le piante assorbono e convertono CO2, ma quando vengono abbattute o bruciate per fare posto ai pascoli o alle coltivazioni ad uso zootecnico, rilasciano nell’atmosfera il carbonio accumulato anche nel corso di centinaia di anni. 

Ad esempio l’allevamento di bovini nella regione amazzonica è il principale fattore di deforestazione al mondo (si calcola un ettaro di foresta persa ogni otto secondi).

Anche la produzione e il trasporto di mangimi genera combustibili fossili ad alto contenuto di carbonio che, quando bruciati, emettono CO2 e altri gas serra. Senza contare l’emissione di ossido di azoto, ossido di diazoto e ammoniaca derivanti dall’impiego di fertilizzanti petrolchimici per le coltivazioni intensive ad uso zootecnico.

Si stima che la produzione di proteine animali richieda un consumo di energie fino a 50 volte superiore rispetto alla produzione di proteine vegetali.

Soluzioni

Dai numerosi studi incentrati sul consumo sostenibile, è emerso che l’impatto ambientale derivante dai singoli individui è causato da tre fattori principali – cibo, energia domestica e trasporti – dei quali il primo è quello con il maggiore impatto, in quanto si trova sul primo livello di scelta personale: ciò che si mangia non dipende infatti da normative o direttamente da motivazioni politiche ed economiche, quanto dalle scelte dei singoli consumatori e dunque non è necessario attendere tempi tecnici per cambiare la situazione, ma basta la scelta di ognuno, subito.

Diversi autori hanno indicato la riduzione del consumo di carne quale necessità per contrastare gli effetti drammatici della produzione zootecnica sull’ambiente. Secondo i ricercatori del programma PROFETAS (PROtein Foods, Environment, Technology And Society) la situazione che si verificherà a seguito dei previsti aumenti della produzione di carne sarebbe ecologicamente difficilissima da sostenere, mentre verrebbero diversi vantaggi da un tipo di alimentazione basata sulle proteine vegetali.

Anche i ricercatori del Royal Institute of Technology di Stoccolma, giunti alle stesse conclusioni, hanno evidenziato quanto le scelte alimentari di ognuno possano fare la differenza.

Inconvenienti?

L’idea di rivoluzionare le proprie abitudini alimentari potrebbe spaventare e non convincere, ma grazie al progresso alimentare degli ultimi anni è ormai possibile servirsi di un’alimentazione interamente vegetale che permette di non rinunciare ai gusti, ai profumi, alle consistenze e addirittura alle apparenze di tutti gli alimenti che abbiamo sempre avuto sulle nostre tavole.

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Impatto idrico

L’allevamento richiede l’utilizzo di risorse idriche, in parte per abbeverare gli animali (si consideri che in estate una mucca da latte può consumare fino a 200 litri di acqua al giorno), in parte per la pulizia delle strutture e degli animali, poi per i sistemi di raffreddamento e per lo smaltimento di rifiuti, oltre che per la macellazione e la relativa pulizia degli impianti di macellazione. 

Ma la gran parte (98%) è usata per la coltivazione del foraggio, per cui vengono impiegati globalmente più di 2300 miliardi di metri cubi d’acqua in un anno. E qui ci ricolleghiamo alla prima parte di questo articolo.

L’impronta idrica corrisponde al volume totale di acqua dolce impiegata per produrre un prodotto. Quella derivante dalle fasi di irrigazione del foraggio, allevamento dell’animale e preparazione del prodotto finito rappresenta circa un quarto dell’impronta idrica globale secondo l’UNESCO-IHE Institute for Water Education, che sostiene anche una maggiore efficienza dall’ottenimento di calorie, proteine e grassi a partire da prodotti vegetali piuttosto che da quelli animali: per una caloria da alimenti animali occorre infatti una quantità di acqua 8 volte superiore a quella necessaria per una caloria da alimenti vegetali.

Prendendo un kg di carne di manzo, si riscontra un’impronta idrica di 15400 litri di acqua, la stessa quantità consumata in sei mesi da una famiglia europea di quattro persone.


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